7 novembre 1968
Un testo, scritto come teatro in ordine a una eventuale rappresentazione, significa secondo "variazioni" e un suo nucleo drammatico per il suo potere oppositivo1.
La relazione concreta del linguaggio teatrale rispetto al testo critica: e la manifestazione teatrale, come metalinguaggio, implica un'attivit di riflessione, chiarifica con lo schiudere la luce interna, ma trova in s zone di originaria autenticit. La natura del linguaggio dice dell'autonomia tra il testo e la manifestazione teatrale e che non si pu semplicemente tradurre: l'"attivit" si apre per l'intercorrere simultaneo e vario di segni in una concatenazione differenziale. E l'attivit spontanea, senza posizioni e scelte pregiudiziali.
La parola scritta domanda, comunicazione. Il linguaggio poetico che al dire provvisorio si oppone attende un processo di rispondenza. La manifestazione teatrale il tentativo di una risposta ed esperimenta la forza della domanda: la parola, divenuta gesto, entra nella totalit significativa. E la significazione diversa l'orizzonte di ogni "ripetizione" ricorrente come giuoco: cio il teatro non ammette ripetizioni. Il giuoco la possibilit di vivere senza pesi con il tentare l'accostamento alle cose con pochi strumenti essenziali. Ma qualcuno alla parola non risponde e si difende con l'appiglio all'uno o all'altro significato: e il ritualismo pu essere fuga e salvezza, quando l'originario senso poetico sconcerta. Tutto si svolge dopo la notizia dell'interrogativo e nell'attesa interrotta ora da un rito ora da una luce d'alba: colmare la distanza impossibile.
La natura della manifestazione teatrale di significare come linguaggio, cio di "opporsi". E il pubblico occorre che sia protagonista.
Come interpartecipazione critica e mediazione multipla, il teatro eminentemente sociale. Divergenza dei punti di vista nell'intercrescere del linguaggio teatrale. La rappresentazione non lontana dalla platea, ma si inserisce in mezzo. Il giudizio, che vuol dire scegliersi, la contestazione della scena a opera della platea o l'eventuale intesa indicano un rapporto reciproco e un concreto dialogo. E il teatro tra una decisione a "partecipare" criticamente al "giuoco"; e un ritorno alla pratica del quotidiano. Il teatro aperto e, perch significhi, non pu essere ristretto n come numero o categoria di partecipanti n come tematiche. E nessuno pu solo insegnare (il rifiuto di cose definite) o essere "padrone", ma tutti domandano. Con un ruolo dinamico. Nessuno pu essere passivo e solamente recettore. La tirannia del testo o il feticismo della scena minano alla radice il teatro e rendono provvisorio ogni spettacolo. Il teatro opposto alla "stabilit" e tenta l'inizio: compiere tale "pazzia" sua funzione specifica (Pirandello s' spinto proprio fin qui): e non luogo di "divertimento" (sopra s' parlato di "giuoco", ma i due termini, qui, non sono sinonimi) di fastoso scorrere di ore fra gente vogliosa d'essere "ammaliata" dove si confermino certezze o convenzioni elette. Il rapimento e l"'immedesimazione" sono il contrario dell'"attivit", del potere del teatro come linguaggio. Non consentita l'evasione emozionale e "magica", fra una "trovata" tecnica che serva a distinguere come "meravigliosa" la decorazione e i segni visibili di dolore straziante o di gioia, effetto di un abbandono dell'attore alla potenza di un dio e prezzo di un biglietto pagato. N l'esercizio di uno "stile" del regista, inconfondibile in ogni rappresentazione.
"Svegliarsi" per guardare con mente lucida: il teatro compie il disgelo e la demitizzazione del "mondo".
La funzione dei "critici drammatici" finora condizionata e poco significativa. Il giudizio che sugli spettatori si ritrova nei periodici non un esame critico di chi ha partecipato e scrive, con un'operazione scientifica di rilievo del concreto rapporto e un metodo di individuazione precisa del linguaggio teatrale, ma dipende da scelte spesso antecedenti e dall'umore dei gruppi "culturali" che si ritrovano la prima sera a vagliare l'effetto di una scena predisposta spesso per loro: ne nasce un orientamento di moda per gli "utenti", il pubblico, e un mito, per pochi, di origini tanto precarie.
I
A Pirandello, nell'ultimo anno del suo soggiorno sulla terra, era stata proposta una rappresentazione de I giganti della montagna nel Giardino di Boboli di Firenze, che egli ritenne adeguato per il primo e il terzo atto (ancora da scrivere), ma non molto per il secondo scritto per un teatro chiuso.
Nel maggio del '37 la regia venne affidata a Guido Salvini che scelse come attori Andreina Pagnani, Memo Benassi, Sandro Ruffini, Rosetta Tofano, Cele Abba, Giuseppe Pierozzi e altri poi esclusi come Gualtiero Tumiati e Bella Starace. Chi continu il lavoro fu Renato Simoni, coadiuvato da un giovane, Giorgio Venturini, che nel prato della Meridiana aveva inscenato con successo "La Tancia", e dai suggerimenti di Stefano Pirandello.
Simoni aveva fatto la cronaca degli spettacoli originati dalle commedie pirandelliane, fino a La nuova colonia mito ritenuto di calda sintesi poetica, di ampio sfondo corale, percorso dall'antagonismo fra due uomini e due modi di concepire la vita, con la finale purificazione dal precario attraverso l'elementare sentire di una donna , fino a Lazzaro, in cui riconosce, nell'antagonismo fra deisti e panteisti, una "vivida virt trasformatrice dei personaggi a figurazioni", la "piet dell'uomo e l'ebbrezza del divino". All'attivit della riflessione, propria della favola umoristica, aveva negato potere drammatico, tranne in qualche raro caso, come Pensaci, Giacomino! o episodi isolati di altre commedie.
De I giganti della montagna comp una descrizione continuamente aderente al testo-mito sotteso tra il miracolo della fantasia e il miracolo della rappresentazione. E osserva (l'articolo apparve sul "Corriere della sera" il primo giugno): "Giuoco dell'illusionista o mirifico avvento dell'illusione, il mondo di Cotrone e degli "scalognati" una surrealit che fa, di tutti, gli inconsapevoli maghi di se stessi". Il rispetto del testo, di cui si tenta di semplificare la lettura, fu anche nell'operazione registica che cerc, anche con opportuno sfruttamento del luogo aperto, di condurre gli espedienti tecnici e le potenzialit recitative degli attori verso una unitaria significazione, avvertita nel calore di umana poesia del mito.
L'architetto Aschieri segu la didascalia dell'autore per la costruzione della villa, sporgente verso il pubblico e con due piazzali antistanti. Per il secondo atto ricorse a un carrello spostabile orizzontalmente per offrire la rapida visione, nel buio, della parete frontale dell'"arsenale delle apparizioni".
Prima dello spettacolo, l'attore Carlo Ninchi (sostenne la parte di Cromo) spieg il carattere commemorativo della rappresentazione e narr brevemente la trama e l'epilogo.
Andreina Pagnani si mostr duttile nell'interpretare il personaggio complesso di Ilse: ora ardente e scattante ora intenerita. L. Repaci2 osserv: "Tutto quel che di esasperato, di bruciante, d'inconfessato c' nel personaggio uno dei pi tormentati di tutto il teatro pirandelliano stato dalla nostra attrice messo in luce con una recitazione, concitata, spesso rotta e delirante, ma mai confusa, anzi netta e straziata in dentro il pi possibile. Questa interpretazione di Ilse non verr dimenticata". Tale giudizio fu da altri condiviso. Ma il Coccia3: "Andreina Pagnani, Ilse, mi parsa insufficiente e, quel che peggio, modellante ogni sua intonazione ed ogni suo gesto alla recitazione che Marta Abba riserba ai lavori pirandelliani".
L'interpretazione di Memo Benassi (Cotrone) s'aggir tra sogno e realt, fra l'arcano e il burlesco. La critica "autorevole" gli riconobbe doti straordinarie, ma anche una certa inquietudine manifestata qua e l.
In un'atmosfera resa lirica e sovrumana, riusc suggestiva, fra i grandi alberi di sfondo sulla verde collina, la sfilata della schiera dell'Angelo Centuno, l'apparizione sul cavallo, con lo scudo e la spada sollevata. Cos pure la scena dei fantocci al secondo atto, di primitiva espressivit. Invece la cavalcata dei giganti che si vedevano passare sullo sfondo con le torce accese, vestiti di ampi mantelli, era desiderata, da coloro che dallo spettacolo erano stati "conquistati", pi violenta e pi sconvolgente.
I momenti musicali furono sommari. Le luci accompagnarono come un commento visivo l'intera rappresentazione; secondo Emilio Cecchi4 per il quale "i giganti non sono forse che un "mito", un'immagine, e la pi disperata di tutte" delle luci si fece un eccessivo uso.
Fedele alle indicazioni dell'autore fu Maria de Matteis per il disegno dei costumi.
F. Bernardelli, dopo lo spettacolo, scrisse5 che ne I giganti della montagna la negazione dell'individuo, come in Cos , se vi pare. Repaci (art. cit.) ritenne l'opera la pi "sbalorditiva" di Pirandello e che per ricordare un "emozione" cos intensa bisognava risalire ai Sei personaggi6, ma lament la mancanza di una rielaborazione nella scena del sogno rimasta "oscura": "Difficile accettare il dato di una coscienza collettiva di sogno rivelata non dai risvegliati, il che sarebbe gi straordinario, ma dai dormienti mentre seguitano a sognare".
In una situazione storica di opposizione a precedenti regimi totalitari, dopo l'immane conflitto mondiale, misurata e realistica, stilisticamente coerente, senza troppo concedere alla "meraviglia" o ad accenti illusionistici, fu l'interpretazione de I giganti della montagna, con regia di Giorgio Strehler, al Piccolo Teatro di Milano, nell'ottobre del 1947. Di ausilio valido a risolvere i vari problemi di realizzazione scenica fu lo scenografo Ratto.
Camillo Pilotto interpret la parte di Cotrone con equilibrio e semplicit e con una recitazione che sottolineava l'umano messaggio del mito. Nell'edizione belga dello spettacolo, per la tourne a Knokke-Le-Zoute, non pot partecipare e fu sostituito da Memo Benassi.
L'interpretazione di Lilla Brignone (Ilse) fu, secondo il parere dei critici calda e tormentata per qualcuno7 anche troppo , alternante toni aspri, teneri, ispirati.
Carlo Parolini in "Domus" (L'ultimo Pirandello, Milano, ottobre 1947) sent il potere drammatico della disperazione di Ilse e della sua Compagnia, ma come estraneo il mondo degli Scalognati.
Renato Simoni, che lod la regia di Strehler8, con qualche riserva, anche a causa dei limiti di spazio per la realizzazione, scrisse: "Questo tema della bellezza che bisogna vivere e non comunicare, dell'opera d'arte che vive da s e per s, appare un concetto intellettualistico esteso sino all'assurdo; perci Ilse non risulta figura commovente; e il suo amore per il poeta morto si risolve in una esasperazione frenetica, che non si comunica alla passione e alla piet degli spettatori; e, invece, il bellissimo sognatore degli abitanti della Scalogna, e quelle apparizioni, quelle magie, quella poesia che vuole dilatare fino all'irreale, il reale, quella mestizia immaginosa, quella fiaba volontariamente creduta vera quanto pi incredibile, teatro bello allucinante; ma avrebbe richiesto un palcoscenico pi ampio e forse maggiore ingenuit di interpretazione". Senza dubbi: Simoni scorgeva nella Scalogna il regno del sogno e dell'evasione fantastica e poetica, Strehler faceva del mito una chiarificazione essenziale nell'attualit della comunicazione dello spettacolo e dava importanza sociale e contrappositiva al tema della poesia, al problema del linguaggio teatrale, alle difficolt degli uomini di mestiere di parlare al "mondo", e in tempi tristi.
Dello spettacolo Strehler cur un'edizione a Zurigo nel 1950. E una realizzata allo "Schauspielhaus" di Dsseldorf nel 1958: la Contessa era Maria Winner, Cotrone Bernhard Minetti. Altri attori: Karl Maria Schley, Walter Schmidinger, Arthur Mentz, Liesel Alex, Max Wittman. Collaborarono Fiorenzo Carpi (musica), Ezio Frigerio (costumi), Luciano Damiani, Amleto Sartori.
del 1959 la rappresentazione con cui si inaugur il Festival della prosa a Bologna. La regia fu di Guido Salvini. Potrebbero dirsi "note di regia" quelle degli "Atti del Congresso Internazionale di studi pirandelliani" (Le Monnier, Firenze 1967) sotto il titolo Il terzo atto de I giganti della montagna (pp. 925-928). Ivi Salvini dichiara di avere imparato da Pirandello a saper soffrire nella vita e con i personaggi sulla scena dov' opportuno regolare il proprio sentimento "con fredda ferocia"; ma anche un ritmo serrato di recitazione che non era "il precipitoso vaniloquio cui eravamo abituati ad esempio nelle compagnie comiche di quel tempo, ma lo sforzo continuo di concentrare il pensiero in attimi, di colorire in frazioni di secondo, con la risultanza mirabile di una recitazione viva e vibratile che riusciva a piegare la nostra lingua, di per s tecnicamente lenta, perch costituita di parole chiuse, in un fuoco d'artificio continuo". E lo scopo era d'imprimere alla recitazione un dinamismo in ordine al significare drammatico. Per il terzo atto incompiuto lo scrupolo del regista e dei suoi collaboratori fu di puntare sulla pura essenzialit di un'opera di poesia, anche come debito sacro verso l'autore. "Il Poeta morto ma i personaggi che egli ha creato vivono ancora e vivono sempre e non possono distaccarsi, personaggi e interpreti, da quella presente immanenza, quindi il loro amore si rivela pi che nella azione drammatica, nella preghiera e nella riverenza. Dovranno essere quindi illuminati e rivelati agli spettatori non in virt di atteggiamenti, poich la parola non li soccorre, ma solo con l'ausilio di un fuoco interiore che possa riuscire a bruciarli. Cos abbiamo creduto di fare, usando per il finale, come in certe trasfigurazioni musicali, lo stile dell'oratorio, anzich quello dello spettacolo vero e proprio". Per la prima volta, del terzo atto del mito, il cui centro fu visto nell'antitesi tra il mondo della liberazione fantastica e una societ materialistica, si tent una interpretazione mimica contemporanea alla lettura della trama (scritta da Stefano Pirandello) compiuta da Gino Cervi.
La recitazione di Cervi era nei due atti tendente pi al fantastico che al piano della semplicit quasi naturale dell'interprete Pilotto. Animazione e vitalit, fra scatti nervosi e toni d'angoscia, prest al suo personaggio (Ilse) Olga Villi.
Unitario ritennero i critici il secondo atto. Qualcuno lament che il respiro "magico" che lo distinse non fosse stato ricercato gi al principio dello spettacolo e che nella voce di Anna Miserocchi, interprete della Scricia, non si sentisse tanto il "mistero". Le parti di Cromo e del Conte furono interpretate, rispettivamente, da Glauco Mauri e da Raoul Grassilli. Cur la coreografia Mady Obdensky, la scenografia Orlando di Collalto. Di lui si riporta qui qualche notazione (Atti, cit. , pp. 363-370): "I Fantocci, nell'Arsenale delle Apparizioni, sono rievocazioni sognate di macchiette, che nella Favola del figlio cambiato non hanno maschere. () Cotrone non un mago. Egli dice a Ilse: "Mi chiamano il Mago Cotrone"; non dice: sono il mago Cotrone. E nemmeno ritiene di essere un superuomo. Egli semplicemente un uomo che avrebbe potuto diventare un grand'uomo e invece si "dimesso da tutto" ed ha scelto di vivere i propri sogni "con la divina prerogativa dei fanciulli che prendono sul serio i loro giochi". Egli la saggezza, che sa come chi abbia nel cuore la poesia, debba ridursi a viverla nell'evasione del sogno, essendo perfettamente inutile il volerla imporre a chi non ne vuol sapere. Ai raminghi pellegrini della vita egli ripete: Sognate! Sognate! come altri (la Sgricia, per esempio) potrebbe dire: Pregate! Pregate! ben sapendo di offrire non una soluzione magica, ma una consolazione. Basta crederci e rinunziare a spiegarsi. Cotrone si distacca e supera gli altri personaggi pirandelliani per la raggiunta chiaroveggenza; egli possiede ormai la sapienza del suo Autore; insomma il personaggio ultimo della poetica pirandelliana; ma non lo sarebbe pi se la sua posizione non fosse teoricamente accessibile ad ogni altro uomo di cuore".
N. Chiaromonte espresse pi sul testo che sulla rappresentazione , partendo da osservazioni di Eugenio Levi, questo giudizio: "Siamo mille miglia lontani da ogni estetismo, da ogni contrasto romantico fra illusione che nutre e realt che avvilisce, e anche da ogni esaltazione del surreale" (Pirandello e l'illusionismo, "Mondo", Roma, 31 marzo 1959).
I giganti della montagna9 sono stati rappresentati al Piccolo Teatro di Milano nel 1966-67, con la regia di Giorgio Strehler. Gli interpreti principali erano: Turi Ferro (Cotrone), Valentina Cortese (Ilse), Mario Carotenuto (Cromo), Carlo Cattaneo (il Conte), Nuccia Fumo (La Sgricia), Alessandro Ninchi (Spizzi).
Un sipario di ferro, imponente. Chiuso. Al di qua e al di l del sipario difficile s'esperimenta il potere di comunicare. E la sfida fra il pubblico, disposto all'imprevedibile, ma duro nell'iniziale sua muta presenza pubblico d'una societ strana e diversa e la gente di mestiere che s'affida agli strumenti e alle tecniche di lavoro che si espone e continua una pratica antica nello sforzo di riuscire dopo l'esercizio e con l'esercizio, nonostante il mutamento dei tempi.
Un lenzuolo, con un taglio nel mezzo, gi sollevato, per vivere in una condizione differente e far teatro: la "villa", ma soprattutto la "tenda" che s'innalza e, alla fine, cade abbattuta dinanzi ai giganti che della morte cruenta compensano con il danaro.
Il giuoco tra il giorno e la notte: radiazioni di luce che illuminano gli angoli e fanno nascere dallo sfondo oscuro e gravato da tenebre i fantasmi: la possibilit del teatro questo. Fra il nero della notte e il verde sprazzare d'una lucciola. L'oscurit del teatro terrore e apertura a possibili evocazioni.
Nella scena vuota vengono d'improvviso gli Scalognati nei loro abiti semplici a iniziare il giuoco, spontaneo, in rapidi movimenti, con grida, con scoppi di lampi, con un'"apparizione": fanno i fantasmi: dopo e in mezzo a loro irrompe con voce potente e chiara Cotrone che il giuoco anima, capace di trasvalutare un particolare accennato ("una donna") in immagine poetica:
Nuda, sciocco! Su un carretto di fieno, una donna nuda, coi seni all'aria e i capelli rossi sparsi come un sangue di tragedia! I suoi ministri in bando la tirano, per sudar meno, in maniche di camicia. Su, svegli, immaginazione! Non mi vorrete mica diventar ragionevoli.
Ecco la Scalogna: l'ipotesi di un teatro puro giuoco il teatro agnostico senza impegni n per s n per gli altri, in uno stato di primordiale innocenza. E gli Scalognati sono anche popolani: il realismo isolano non contrasta con l'ipotesi.
Arrivano i primi teatranti. In questo spettacolo, vogliono essere d'una classe determinata: piccolo-borghesi. Realistici i personaggi e i loro problemi. Gli abiti e i trucchi sfatti. Il trucco come assunzione di una maschera volontaria pu atterrire. Ma chi del mestiere, ora soffre della pena dell'esercizio mancato e anche del disagio economico.
Applaudono allo spettacolo degli Scalognati con entusiasmo improvviso e finto: abituati alla finzione, ormai sono, al fondo, indifferenti a tutto. E s'accalorano subito dopo il ruolo iniziale di spettatori che si congratulano nello scambio quasi rituale di battute: anch'essi dal quotidiano ba1zano sulla scena, con le immagini, nella memoria, del mestiere e dei "fatti" tra coloro che il peso dei fatti hanno scrollato dalle spalle. Il Conte si rivolge alla platea, quando dice:
Qua siamo, vedo, in una vallata, alle falde d'una montagna.
I due gruppi si distinguono sul palcoscenico e si contrappongono drammaticamente. Il "teatro del teatro" si svolge tra piani differenti in un unitario discorso.
Il carretto reca "personaggi", strumenti teatrali, frammenti di teatro. I teatranti del secondo palcoscenico sopraelevato recitano la Favola: Ilse, con i capelli rossi sparsi e l'abito dimesso violaceo, si alza dal carretto, cerca un pubblico. E lo spettacolo nuovo per gli Scalognati che vi partecipano come a una evocazione dal silenzio e intervengono. Il teatro del fatto. L'amore di Ilse per la poesia peso per gli altri e il messaggio poetico ha perso per loro la sua novit. Alla rappresentazione i teatranti si prestano, ma per rispetto di Ilse e per mestiere. E risalta il diario della protagonista che tutto ha rischiato fra le incomprensioni degli altri attrice e dei suoi amici.
La comunicazione con il pubblico s'annuncia come una speranza. E i giganti si nascondono gi in agguato.
Ma la condizione attuale implica il riferimento agli Scalognati: e la "scena" avviene come per necessit un obbligo di mestiere o un nascere libero delle passioni nell'interpretazione divergente dell'accaduto. Rapidi e chiari i gesti. La distinzione virtuale tra il primo e il secondo palcoscenico, non pi netta. E gi Cotrone interviene, con l'indice puntato verso il pubblico:
La poesia non c'entra! Chi poeta fa poesie: non s'uccide!
Il resto rappresentato come se il pubblico fosse al di l del lenzuolo - "villa" e del piccolo lenzuolo - "sipario".
Si ritirano tutti, tranne Cotrone, il Conte e Ilse, perch l'ombra s'addensa intorno. In Ilse vive ancora il "personaggio" che si manifesta in parole e gesti. E rimangono il nero della notte e le lucciole in un paesaggio campestre. Atmosfera di racconto popolare, di fiducia semplice e serena, di preghiera, di riti lenti: la Sgricia narra il miracolo con accenti paesani e religiosi. Gli altri ascoltano con sorpresa e compatimento. Cotrone, che ha invitato al racconto, sdraiato per terra sulla via che sale all'ingresso della villa, ogni tanto si scuote per le Voci. E appare sul ponte la Maddalena, improvvisa, poi esitante con un linguaggio mimico: senza parole, naturale come nella sua vita.
Il "mago" guida il giuoco degli Scalognati e dei teatranti. Questi vivono la loro festa fra la realt e la finzione. S'immedesimano nella loro parte. "Amano" il "personaggio" e spontaneamente si travestono per apparire fuori della "tenda". Vivono il loro mestiere e dimenticano proprio il pubblico. E si mascherano per giuoco: amore per il teatro e desiderio di liberarsene attraverso la "carnevalata".
Si contrappongono di nuovo gli Scalognati, "alienati da tutto": n devono comunicare a un mondo tecnocratico senza "teatro", che del comunicare non avverte il problema perch ne perde l'esigenza. La differenza tra i due gruppi inclusa, qui, nel rapporto testo-rappresentazione, fra il "teatro puro", la poesia, intesa come valore fantastico nella sua accezione quasi assoluta e astorica, e una interpretazione scenica che si vale sempre di strumenti significanti, quindi non priva di limiti. E una compagnia di attori vuol dire che la scelta del rischio stata compiuta.
L'"arsenale delle apparizioni" la macchina completa del teatro, ove pu avvenire il sogno e la possibilit di accorgersene: il "giuoco" ben questo, una "ricorrenza" e lo specchio riflettente per una lettura. Dal sottopalco fornito di congegni vari, possono sorgere maschere strane, improvvise immagini riflesse. E piani diversi di realt vi si nascondono, che possono saltare sul palcoscenico vuoto. Ma l'arsenale e le trovate degli uomini di mestiere non bastano per il teatro.
Ilse reca nella notte le insofferenze del quotidiano, il sentimento d'oppressione che le deriva dal vedere le persone a lei legate, la paura della "pazzia", la fiducia a proseguire il rischio in un animato scambio di parole con il Conte. Fino al silenzio.
La febbre del teatro fa sognare nei loro ruoli i teatranti: sempre fra la vita e la "rappresentazione". E al sogno prendono gusto pi liberi nel giuoco che durante il giorno.
Il pubblico vede muoversi dinanzi "il teatro" strumenti e fantasmi , una "sfilata", fra musica, luci, sogno, scoperte impreviste, banalit, il ballo dei teatranti con i fantocci nella notte dei sogni che prospetta la natura del teatro.
La Scalogna, con il suo potere di evocare spettacoli nuovi e spontanei, pu far vivere la "Favola" e senza difficolt. E si ripropone l'antitesi e il dovere di vincere la paura e di affrontare il rischio: i teatranti s'affidano ancora al rito della preparazione al di qua della "tenda" per loro normale e pu essere un conforto. La plebe dei giganti rifiuta la "Favola", non vuole assistere al "tormento" del personaggio, s'attende il riso. E il lenzuolo non significa pi tra il pubblico e i teatranti. Per questi rimane Ilse morta sulla scena. Qualche gesto ancora, perch la loro vita e il loro mestiere. La liberazione di un incubo e il nulla. Il sipario di ferro spezza il carretto di legno.
il fallimento degli Scalognati isolati dal mondo, dei teatranti con la relativit del loro tentativo, dei giganti sprofondati nell'istinto brutale: tre aspetti dell'et contemporanea nella loro radicale problematicit e "apertura" in uno spettacolo del teatro. Rarefazione della scenografia come riduzione dei propri strumenti fino all'evento della rappresentazione che ha bisogno di termini essenziali per comunicare: e mancano.
Diario dei problemi della teatralit opera organica che invita alla meditazione il pubblico attraverso il "giuoco" spettacolare, ma non ne implica l'intervento10 il regista ha avuto l'occasione d'"esprimersi". Lo spettacolo del teatro fra la precariet dei suoi strumenti, la fissit di maschere definite o ordinate "stilisticamente", e il suo tentativo. Nel ridursi graduale delle possibilit, dopo le varie scelte. E la domanda anche se l'"insegnamento" consentito dall'attivit.
1 Questa premessa sulla specificit del linguaggio teatrale un corollario che attende ancora uno sviluppo dei principi esposti nelle "Note metodologiche".
2 L. REPACI, I giganti della montagna nel Giardino di Boboli "Illustrazione italiana" (Milano), 13 giugno 1937.
3 E. CECCHI, I Giganti della Montagna di Luigi Pirandello in Boboli a Firenze, "Theatrica", giugno 1937 XV E. F., anno III, n. 6, pp. 148-150.
4 E. CECCHI, I giganti della Montagna "Corriere della sera", 6 giugno 1937.
5 F. BERNARDELLI, I giganti della montagna rappresentati nel Giardino di Boboli, "Stampa" (Torino), 6 giugno 1937. L'articolo era significativo per un giornale.
6 A proposito, M. Bontempelli: "I giganti della montagna, nella stessa dolorosa incompiutezza che sembra dar loro qualche cosa di ancor pi monumentale, sono l'esatto epilogo della vasta opera di cui i Sei personaggi in cerca d'autore sono la premessa. Questa tragedia troncata la colorata sintesi di tutto il pensiero pirandelliano intorno alla funzione del personaggio nella vita profonda dell'uomo. La umanit, quale sorge dalla natura, un prodotto labile; ma gli uomini inconsistenti e caduchi traverso la poesia creano i personaggi, solidi, immutevoli, eterni. L'uomo sogno di un'ombra di Pindaro, l'uomo tramato nella sostanza stessa dei sogni di Shakespeare, trova la sua redenzione, la sua salvezza, la sua consistenza nella creazione della dramatis persona di Luigi Pirandello" (L'ultima opera di Pirandello: I giganti della montagna, Almanacco letterario Bompiani 1938").
7 G. MOSCA, I giganti della montagna, "Oggi" (Milano), 26 ottobre 1947.
8 in "il Dramma", Torino, 1 novembre 1947.
9 La lettura di queste pagine deve essere accompagnata da quella della necessaria documentazione fotografica che ritrova nella successione delle sequenze teatrali i tratti schematici funzionali.
10 Ricordo un "pomeriggio teatrale" per alunni di scuole superiori. Con risa demistificanti e tentazioni d'interventi. Lo spettacolo non poteva proseguire e come una pellicola s'interruppe una prima volta e Valentina Cortese avvert: "Ragazzi, vogliate ascoltare la recitazione che noi facciamo per voi con tanto amore!" una seconda volta e Turi Ferro: "Fuori c'era il sole, ragazzi (e una signora del pubblico, nella prima fila, "Cosa v'aspettate di vedere? Rita Pavone?) se non a voi, a chi dobbiamo recitare I giganti della montagna?"
Anche questo, indubbiamente, poteva rientrare nel problema della comunicazione principale nella commedia , ma fu sentito e costitu un "disturbo".
Alla fine gli attori non si presentarono per il solito applauso. La rottura della normalit, ch' del teatro, aveva vietato una consuetudine.